Tianjin, storia di una concessione territoriale italiana in Cina

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Si può passeggiare in Corso Vittorio Emanuele e poi mangiare cibi e vini italiani. C’è persino il Nuovo Cinema Paradiso. Storia e storie del “settlement” italiano di Tientsin Il possedimento risale al periodo della rivolta dei Boxer. Nel 1901 l’Italia, avendo partecipato alla repressione dei ribelli insieme ad altre potenze europee, ottenne dal governo cinese il diritto di proteggere militarmente le proprie ambasciate e attività commerciali. Serviva un territorio nel quale dislocare truppe e diplomatici, e Tientsin era la città ideale: zona franca dal 1866, quando i Savoia sottoscrissero un Trattato di Commercio e navigazione con la Cina, vicina a Pechino, disposta lungo un fiume navigabile. La guerra contro i Boxers – nazionalisti cinesi che si ribellarono alle ingerenze delle potenze straniere in Cina – fu breve e cruenta (giugno-agosto 1900). Al conflitto parteciparono 2.000 soldati italiani, la maggior parte dei quali venne rimpatriata al termine dei combattimenti. Il trattato di pace, siglato con l’imperatrice Tsu Tsi nel settembre del 1901, conferì all’Italia il diritto di occupare una porzione di Tientsin e i due quartieri commerciali di Pechino e Shangai, in condominio con le altre potenze occidentali. Nel 1915, allo scoppio della Prima guerra mondiale, la “colonia” di Tientsin contava circa 10.500 abitanti, diecimila dei quali cinesi. I soldati dislocati in Cina erano per lo più bersaglieri (200), supportati da un battaglione speciale, costituito da ex prigionieri austro-ungarici di origine italiana catturati in Galizia e trasferiti in Estremo oriente. La guarnigione venne rimpiazzata e rinforzata nel 1925, quando venne organizzato il Battaglione Italiano in Cina, guidato dal San Marco. Il battaglione era formato da tre compagnie di 100 uomini ciascuna: la San Marco, la Libia, la San Giorgio. Il 18 aprile 1928 l’imperatore cinese Pu-Yi visitò il territorio italiano di Tientsin e passò in rivista i soldati. Nel frattempo l’interscambio commerciale e tecnologico tra i due paesi era cresciuto a tal punto che due italiani – Gibello Socco ed Evaristo Caretti – vennero chiamati alla direzione del Ministero dei Trasporti e delle Poste. L’arrivo di Galeazzo Ciano, con la moglie Edda Mussolini, diventato ministro plenipotenziario italiano in Cina rafforzò i legami col leader Chang Kai Shek (fuggito a Formosa – oggi Taiwan -, dopo la vittoria dei comunisti di Mao) e con Chang Hsueh Liang, di simpatie fasciste. In Cina venne inviato anche il figlio “segreto” di Mussolini, nato dalla relazione con la trentina Ida Dalser. Dopo l’inizio del conflitto sino-giapponese, nel 1932, Chang Kai Shek scelse Ciano quale mediatore. Nello stesso anno la Compagnia di navigazione Lloyd Triestino aprì una nuova linea Italia-Cina, utilizzando due transatlantici di prestigio, il Conte Biancamano e il Conte Rosso (che stabilì il nuovo record mondiale per la traversata, impiegando 23 giorni di navigazione). Grazie ai nuovi servizi di trasporto l’interscambio italo-cinese salì a un livello tale da impensierire gli inglesi e i francesi. Nello stesso tempo Mussolini cercò di favorire l’industria aereonautica nazionale, prima regalando a Chang Kai Shek un trimotore Savoia-Marchetti, poi inviando una delegazione di piloti, ingegneri aereonautici, tecnici e addestratori, allo scopo di spingere il governo di Nanchino e la neonata aviazione cinese a dotarsi di prodotti italiani. Mussolini pensava di delocalizzare in Cina fabbriche che avrebbero costruito aerei su licenza italiana. Si trattava di una situazione simile a quella attuale? Tuttavia, nonostante l’idrovolante Macchi avesse stabilito un nuovo record di velocità (700 Kmh), il governo cinese si limitò ad acquistare un piccolo numero di caccia Fiat CR32 e ricognitori/bombardieri Caproni. Le relazioni italo-cinesi si complicarono pesantemente quando l’Italia sottoscrisse il Patto Anticomintern, siglato nel novembre 1936 tra Germania e Giappone. Il patto prevedeva l’accerchiamento del blocco sovietico e la spartizione in aree di influenza dell’intero continente asiatico, Cina inclusa. L’adesione dell’Italia fu la genesi delle alleanze che diedero l’esca al secondo conflitto mondiale. Al Patto aderirono anche l’Ungheria e la Spagna, insieme con la Manciuria, lo stato-fantoccio creato dal Giappone in Cina dopo il conflitto del 1932. Con alleanze e strategie così erronee, l’Italia non poteva pensare di continuare ad avere buone relazioni col governo cinese. L’Archivio Storico dell’Istituto Luce, alla voce “Tientsin” permette la visione di molti filmati, dai quali si desume con chiarezza il cambiamento di rapporti con la Cina in funzione filo-giapponese. Tientsin (oggi Tianjin) è una città posta sul fiume Hai (navigabile fino al mare), e si trova in una posizione strategica. L’avanzata giapponese era ripresa nel 1937: nel 1939 i giapponesi posero l’assedio alle concessioni territoriali anglo-francesi, e nel 1939 furono in grado di gestire l’emergenza dovuta a una grave alluvione: erano ormai loro gli effettivi padroni della città. I cinegiornali Luce enfatizzano il ruolo “civilizzatore” dei giapponesi. Le relazioni diplomatiche col governo di Chang Kai Shek si spezzarono definitivamente, causando l’isolamento crescente dei settlement di Tientsin, Shangai e Pechino. Vennero richiesti rinforzi a Roma. Nel 1937 la nave Lepanto aveva raggiunto i distaccamenti italiani in Cina. In seguito arrivò l’incrociatore leggero Raimondo Montecuccoli, con centinaia di soldati di rinforzo, in tempo per assistere al bombardamento di Shangai (15 settembre 1937). In quel momento v’erano in Cina 764 ufficiali e soldati italiani del battaglione Granatieri di Sardegna, provenienti da Massaua. In quella fase i soldati italiani supportarono le truppe inglesi e americane (circa 3500 uomini) nel portare in salvo i civili occidentali (a Shangai gli italiani erano ridotti a 42 persone). A settembre e ottobre i cacciabombardieri giapponesi Mitsubishi attaccarono l’incrociatore Montecuccoli nel corso di un nuovo raid su Shanghai. A fine anno la nave venne rimpiazzata dalla unità gemella Bartolomeo Colleoni, che rimase in Cina fino al 1939. All’inizio della guerra mondiale vennero rimpatriati aviatori, Carabinieri e Guardia di Finanza. La cannoniera Lepanto e la Carlotto rimasero a Shangai e Tientsin. Nel corso della guerra, le basi cinesi servirono da rifugio alle navi dislocate nelle colonie africane, che altrimenti sarebbero cadute in mano inglese. La nave coloniale Eritrea (dotata di cannoni) e i piroscafi armati Ramb 1 e Ramb 2 salparono dal porto di Massaua e trovarono rifugio a Kobe e nei porti di Shangai e Tientsin, ma una delle due bananiere venne affondata dall’incrociatore neozelandese Leander. Le concessioni in Cina non vissero un periodo felice nel corso della occupazione giapponese della Cina. Le navi non potevano essere utilizzate per contrastare la flotta inglese del Pacifico, perchè i giapponesi erano molto attenti a preservare la non-belligeranza. Dopo Pearl Harbour invece la nave Eritrea venne utilizzata in supporto ai sottomarini italiani che raggiungevano Penang e Singapore dalla base di Bordeaux, con prodotti destinati all’industria bellica giapponese. Si giunse all’8 settembre 1943. In quel giorno la Eritrea era in navigazione tra Singapore e Sabang per fornire appoggio al sottomarino oceanico da trasporto Cappellini, arrivato dalla Francia dopo una difficoltosa traversata. Quando la nave ricevette un messaggio della Reuter, che annunciava la resa dell’Italia, il comandante invertì rotta, e cercò di raggiungere Colombo, nell’isola di Ceylon (Sri Lanka), passando attraverso lo stretto di Sumatra e sfuggendo alla caccia delle unità aereonavali giapponesi. Nella zona vi erano altre unità navali: il Conte Verde (che venne autoaffondato a Shangai), tre sommergibili, oltre al già citato Cappellini, che decise di continuare la guerra con la RSI e con i giapponesi. Nonostante ciò il sottomarino venne confiscato e il comandante e l’equipaggio italiani furono sottoposti a un trattamento inumano in un campo di prigionia nipponico. La sola unità che riuscì a porsi in salvo fu la Cagni, che dopo l’armistizio si diresse verso Durban, nel Sud Africa, consegnandosi agli alleati. Altre unità si unirono al comando tedesco U-Boat di Penang. Dopo la caduta di Berlino una ventina di marinai italiani continuarono a combattere al fianco dei giapponesi: ad esempio, il sottomarino Torelli fu operativo fino al 30 agosto del 1945. L’armistizio dell’otto settembre fu un fulmine inaspettato per l’esercito italiano in Cina e ciò permise interventi da parte giapponese, così come avvenne in Italia da parte dei tedeschi. La Stazione radio di Pechino venne difesa da 100 marinai e soldati italiani e resistette per un giorno contro 1000 soldati giapponesi appoggiati da 15 carri leggeri. I prigionieri italiani finirono in Corea, dove subirono le sevizie che l’Impero del Sol levante riservava ai prigionieri. Il distaccamento di Tientsin, circondato da 6000 nemici, decidette una disperata resistenza, ma dovette arrendersi quando ebbe notizia dell’arrivo di un’intera divisione nemica. A quel punto infaustamente ma come sempre gli italiani si divisero: 170 decisero di aderire alla RSI, continuando la guerra a fianco dei tedeschi e dei giapponesi, gli altri vennero internati nei campi della stessa Tientsin, in Corea o in Giappone. Dopo la vittoria americana, alcuni prigionieri finirono nelle Filippine e nelle Hawaii prima di poter ritornare a casa. Gli ultimi rimpatriati arrivarono nel porto di Napoli nel marzo del 1946 a bordo di navi americane. Attualmente, aziende italiane stanno finanziando la ricostruzione del quartiere “italiano” di Tientsin. Nel 2005, nonostante richieste e solleciti, non siamo riusciti ad avere nessun riscontro dalla ambasciata italiana di Pechino, interpellata per avere informazioni. Lo stesso è avvenuto con i consolati italiani dislocati in altre città cinesi. E’ stato ugualmente difficile contattare e farsi rispondere dalla Associazione Italia-Cina. Finita l’epoca del colonialismo, siamo entrati nella non meno dannosa era del lassismo.



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